Se il nostro interesse per l’abitare è veramente determinato tanto da quello che le nostre case sono in grado di esprimere quanto da come soddisfano le nostre esigenze materiali allora vale la pena di riflettere su come si stia evolvendo il progetto dell’abitazione.
Il tema dell’abitare non ha più oggi la centralità disciplinare ed esigenziale che aveva assunto dai tempi del Movimento Moderno fino alla felice stagione del secondo Dopoguerra, donandoci interessanti lezioni, ancora attuali, del vivere in ambito urbano.
Questo per due motivi:
- il primo, deriva dall’evidente mutazione sociale che ha consentito “una casa per tutti”: fortunatamente non siamo più nell’emergenza abitativa della seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, invece che orientare la ricerca ad un miglioramento della qualità dell’abitare, all’affinamento delle equilibrate esperienze costruite negli anni antecedenti, a sviluppare il concetto dell’abitazione come spazio costruito a misura d’uomo, si è privilegiato a senso unico il principio di casa come bene durevole su cui investire i propri guadagni. Si sono persi di vista i valori e le sensazioni che l’abitazione, come luogo primario di identità delle persone, è in grado di rappresentare, per lucrare sul processo. Amministratori, imprenditori, progettisti e utenti hanno pragmaticamente privilegiato il più a meno, come se l’abitazione fosse un prodotto da vendere al mercato, conducendone inevitabilmente alla sua dissoluzione. Le amministrazioni pubbliche hanno allentato, molto più che in altre regioni europee, il controllo dell’edilizia residenziale, un po’ per mancanza di lungimiranza, uno po’ per stoltezza politica. Da qui alla casa come bene da investimento il passo è stato molto rapido. Non si sono fatti pregare gli imprenditori in vista di un lucroso profitto, così come i progettisti alla luce di guadagni più facili senza impegno intellettuale. E gli utenti, stupidamente convinti di un incremento delle loro libertà personali, hanno accettato passivamente, ed in parte alimentato, un processo che li vede come vittime principali. Tutto questo ha condotto ad un rapido e generale inaridimento della cultura dell’abitare, che necessiterà di tempo per essere recuperata e ricondotta alla sua giusta dimensione.
- il secondo, di natura più squisitamente architettonica e compositiva, deriva dal fatto che viviamo un’epoca dove la centralità del significato viene contaminata dalle differenze in cui si estende il campo del progetto. La centralità sociale, costruttiva, tipologica dell’alloggio costruita dall’architettura del Novecento è oggi superata dalla miriade degli attuali progetti, diversi per ogni occasione, ai quali si richiede di assecondare la domanda di singolarità e di differenza su cui si fonda la composizione architettonica contemporanea. L’inseguimento dell’iconicità del progetto, fondata su un atto espressivo formale e unico, finisce per sovrascrivere il concetto tipologico ed esigenziale sul quale si è costruito il progetto dell’abitare fino ad oggi. E’ innegabile che l’elenco delle attività esigenziali del dormire, lavarsi, desinare, preparare il cibo, riposarsi, fondate sul normotipo standard, che hanno condizionato i diagrammi funzionali della residenza del secolo scorso, vada aggiornato alla luce di nuove esigenze e mutati stili di vita dell’uomo moderno; e, ancora, è evidente che la personalizzazione del progetto, la necessità della differenza, appare ormai come fine ultimo della ricerca progettuale ma anche come esigenza ormai codificata dell’utenza.
Ripartire da questa esigenza di singolarità, riscrivendola in un esercizio di serietà ed umiltà, può facilitare la centralità e la rinascita di una nuova cultura dell’abitare che veda la casa come spazio a misura d’uomo, dove le pragmatiche considerazioni economiche vengano ricondotte al loro giusto condizionamento. Un’innovazione costruita a piccoli passi, con l’introduzione di variazioni e differenze, piuttosto che per proclami o per sensazionalistici atti formali, spesso privi di ogni consistenza logica. Un’innovazione che si fonda sul fare, piuttosto che schermarsi dietro il dire. Il progetto dell’abitare deve essere capace di ordinare gli spazi di relazione e nel contempo di condurre a soluzioni inattese; anticipare e suggerire all’utente modi e stili di vita piuttosto che adeguarsi a soluzioni predeterminate.
Nel progetto dell’abitare è necessario disimparare ciò che già crediamo di sapere, per riconoscere la complessità dei gesti quotidiani: la difficoltà non sta tanto nel comprendere le esigenze e le dimensioni umane, ma nel convertire questa conoscenza in un linguaggio non ambiguo (o ancor peggio inesistente) del progetto architettonico. Definiamo belli quei progetti che hanno l’umiltà di interrogarsi dei desideri delle persone e la tenacia di tradurre le idee e le aspirazioni in progetti logici: una combinazione che permette di creare spazi capaci di soddisfare esigenze di cui non sospettiamo l’esistenza.
Il rigore di Villa Davoli e la dissoluzione dell’abitare sono i temi estremi di questo numero: nel mezzo sono illustrati gli esempi, molto differenti tra loro, di una ricerca fatta di piccole innovazioni, di gesti seri e meditati, ordinati e con soluzioni inattese, a misura d’uomo.